L’isola dei cani è ambientata nel 2037, quando il Giappone ha confinato tutti i suoi cani su di un’isola discarica per contrastare il diffondersi di una violenta epidemia di influenza canina.
Per dare l’esempio, il sindaco della città di Megasaki, Kobayashi comincia la deportazione dei cani partendo da Spots (Liev Schreiber/Pino Insegno), fedele cane da guardia del suo giovanissimo pupillo e lontano parente, Atari Kobayashi. Con la volontà di andare a riprendersi il cane, il giovane Atari riesce, non senza difficoltà, ad approdare sull’isola pilotando un piccolo aereo. Lì trova in cinque cani: Chief (Bryan Cranston/Stefano de Sando), Rex (Edward Norton/Massimo de Ambrosis), King (Bob Balaban/Mino Caprio), Boss (Bill Murray/Angelo Nicotra) e Duke (Jeff Goldblum/Sandro Acerbo) l’aiuto necessario per ritrovare il suo amico a quattro zampe.
A Megasaki intanto un gruppo di studenti, capitanato dalla studentessa straniera Tracy Walker (Greta Gerwig/Veronica Puccio) si oppone ai folli progetti del sindaco e del suo tirapiedi Maggior – Domo. Con l’aiuto congiunto dei cani e degli studenti, il piccolo Atari riuscirà a ritrovare il suo cane e a far arrestare il sindaco e i suoi tirapiedi.
L’isola dei cani oltre la trama
Il cineasta texano, con il suo secondo film d’animazione in stop-motion, resta fedele alla linea; la simmetria delle inquadrature, l’uso del colore, i dialoghi “semplici”, fanno de L’isola dei cani un altro piccolo gioiello ma, rispetto ai lavori precedenti, si insinua una forte vena politica in una storia che si irrobustisce anche dal punto di vista temporale con la novità dell’uso di flashback. Tra i momenti più belli del film non si possono non citare i pensieri del cane Chief che si immagina le acrobazie della cagnolina Nutmeg e la scena in cui viene preparato il sushi avvelenato per il dottor Watanabe (questa, personalmente, da vedere e rivedere).

Il nono lungometraggio di Anderson è, probabilmente, l’opera più complessa del regista e gli ammiratori storici non saranno delusi dai toni politici del film che il nostro cineasta ha saputo ben amalgamare all’interno della sua peculiare poetica. Potrebbe risultare un’opera più complicata, invece, per i neofiti di Wes Anderson cui consigliamo, molto umilmente, di rivedere in tempi brevi il film o, se volessero “capire” meglio il regista, di approcciare qualche altra sua opera (I Tenenbaum o Moonrise Kingdom – Una fuga d’amore, potrebbero essere un buon punto di partenza).
Il conto
Direi che non ho molto altro da dire al riguardo se non invitare i lettori di questo articolo ad andare al cinema per vedere L’isola dei cani, la conferma – ce ne fosse il bisogno – di quanto Wes Anderson sia a tutti gli effetti un cineasta e non “solo” un regista.
Ciao e al prossimo caffè,
Il Barista Animato
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1 pensiero su “L’isola dei cani. I cani di Wes.”