Quando vidi per la prima volta: La città incantata (Sen to Chihiro no kamikakushi) conoscevo già l’opera di Miyazaki, il mio primo incontro con la sua arte è stato grazie a: Il castello errante di Howl, e ne rimasi colpito perché, pur essendo cresciuto a cartoni animati (anime giapponesi compresi), non avevo ancora visto un’opera del genere.

Con il pluripremiato film del 2001 fu una seconda epifania; La città incantata aveva tutto. Una storia che subito sembra avere una trama “normale”; la piccola Chihiro, dopo aver visto i genitori tramutati in maiali, si fa assumere alle terme gestite dalla strega Yubaba per poter far tornare umani i suoi. Questa semplice trama dà il via ad altre tre trame (impossibile definirle sotto trame) tutte portate avanti in maniera magistrale; vicende che se prendono avvio da un’azione della piccola Chihiro è sempre con lei che trovano compimento
La bellezza di Chihiro
Vogliamo poi parlare di questo giovane personaggio? Sicuramente fra più interessanti dello Studio, Chihiro intraprende un vero e proprio cammino di crescita personale che prosegue in tutto il lungo arco narrativo. Lungo il racconto seguiamo questa bambina – all’inizio indolente e paurosa – compiere una enorme maturazione interiore, per salvare i suoi genitori e in questo suo maturare trova l’aiuto di Haku, Kamagi, Lin, Zeniba.
Chihiro si fa strada rapidamente nel cuore di Kamagi ed è da lui che riceverà il biglietto del treno per raggiungere Zeniba, riportandole quanto rubato da Haku. Libererà quest’ultimo da Yubaba ricordandogli il suo vero nome e riporterà alla proprietaria delle terme il suo tanto capriccioso quanto enorme bebè Bō (mai veramente rapito, naturalmente). Tutto ciò le permetterà di affrontare e vincere la prova suprema: riconoscere, fra numerosi altri maiali, i suoi genitori.
Ciò che, mi ha catturato ancor di più rispetto ad Howl, è l’avermi fatto conoscere un po’ del “folklore” giapponese, fino a quel momento per me totalmente sconosciuto. Questo grazie a personaggi come: Kamagi, lo yokai che lavora nel locale caldaie delle terme di Yubaba e che si affeziona a Chihiro in pochissimo tempo, o gli shikigami di carta che attaccano Haku mentre è trasformato in drago e tanti altri piccoli particolari di questa millenaria e lontanissima cultura che mi hanno subito affascinato.
La bellezza dell’inutile de La città incantata

Un altro fiore all’occhiello del film è “l’inutilità” di alcune scene; inutili non perché brutte, né perché appesantiscono il racconto ma perché non aggiungono nulla di importante alla trama in sé. La “scena madre”, per chi scrive, è senza alcun dubbio quella del viaggio in treno di Chihiro verso casa di Zeniba. Una scena quasi in sospensione, come sembra voglia suggerirci Joe Hisaishi con l’eterea: The Sixth Station, dove non succede nulla di importante e si poteva risolverla dando il via, magari, ad un’ellissi che sarebbe potuta cominciare subito dopo la timbratura del biglietto di Sen/Chihiro, concludendosi all’arrivo alla sesta fermata. Naturalmente Miyazaki a questo ha preferito una sorta di “poesia dell’attesa” ed ecco che una delle scene più iconiche dell’intero film è quella meno “importante” ai fini della risoluzione delle quattro trame.
Dulcis in fundo: la musica di Joe Hisaishi, un racconto per suoni di ciò che stiamo assistendo, e la fotografia di Atsushi Okui – un’ennesima conferma della sua bravura – donano a La città incantata ulteriore lustro
Il conto
La città incantata ha vinto l’orso d’oro a Berlino, l’Oscar per il miglior film d’animazione a Los Angeles, 4 Annie Awards e moltissimi altri riconoscimenti che lo hanno consegnato alla storia del cinema mondiale.
Questi sono i motivi (riconoscimenti esclusi) che mi fanno amare il 12° film dello Studio Ghibli; quali sono i vostri?
Ciao e al prossimo caffè,
Il Barista Animato
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4 pensieri su “La città incantata. La mia dichiarazione d’amore.”